Questo Natale, come ogni Natale dato che per me è importante, ero sull’aereo che mi avrebbe portata da Milano a Licata, la mia città. Avevo deciso di portare con me “Il mondo che vogliamo“, il libro di Carola Rackete edito da Garzanti, che la casa editrice mi aveva gentilmente regalato e che ringrazio.

Alla prima pagina, ho trovato scritta la parola Licata (AG) che è la città dalla quale la nota missione Sea Watch 3 è partita e si è conclusa l’estate scorsa. L’imbarcazione è ancora nel nostro porto.

Sea-watch 3 a Licata
La Sea Watch 3 al porto di Licata

Licata è anche come sapete la mia città natale, e leggerla proprio mentre la stavo raggiungendo mi ha fatto un certo effetto.

Approcciandomi al libro di Rackete non sapevo esattamente cosa aspettarmi, o meglio: sapevo che non avrebbe parlato solamente della vicenda della Sea Watch 3, ma non mi aspettavo che mi avrebbe insegnato così tanto sulla crisi climatica e in generale su tutti i fattori interconnessi che potrebbero portare il nostro mondo al collasso in un futuro non così lontano.

Del resto, è ciò di cui movimenti come Extiction Rebellion (di cui Rackete è attivista) e Fridays For Future assieme a Greta Thunberg ci dicono già da alcuni anni a questa parte, fino a manifestazioni recentissime in Italia.

Il punto è che per la maggioranza non ci sono orecchie per sentire. Ed è qui che si inserisce il libro di Rackete – scritto assieme ad Anne Weiss, attivista ambientalista – ossia parlare proprio a te, lettore, per spingerti a riflettere ma soprattutto ad agire.

Dato che sono state fatte accuse sui social di “ricerca di pecunia”: le autrici Carola Rackete e Anne Weiss devolvono i proventi del libro all’Associazione borderline-europe – Menschenrechte ohne Grenzen e.V. che si batte per i diritti dei profughi e si oppone alla criminalizzazione di coloro che li aiutano.

La ricostruzione dei fatti della Sea Watch 3

Se il mondo improvvisamente torna a occuparsi dei soccorsi in mare dipende anche dal fatto che il ministro in questione scrive spesso e volentieri dei tweet e che io, una giovane donna, sono il capitano di questa nave.
Non dipende dallo scandalo vero e proprio.
Cioè che degli esseri umani sono bloccati qui, che vengono trattati come persone di seconda categoria.
Questo è razzismo, nient’altro.

“Il mondo che vogliamo”, p. 28.

Tutta la vicenda della Sea Watch 3 è raccontata in maniera abbastanza secca e senza fronzoli da Rackete, soprattutto senza quella morbosità da gossip che ha nutrito la maggioranza della stampa nel periodo in cui sono accaduti i fatti. Don’t feed the media, mi verrebbe da dire.

Tutto ciò che le autorità hanno o non hanno fatto ha avuto il solo effetto di ridurre sempre più il mio spazio di manovra. Alla fine non ho avuto scelta. Ho dovuto prendere questa decisione per garantire la sicurezza delle persone a bordo. Entrando nel porto, ho semplicemente adempiuto al mio dovere di salvare quelle vite. Non è stato nè un reato nè un atto di eroismo.

“Il mondo che vogliamo”, p. 47.
Sea-Watch 3
The Sea-Watch 3 patrolling the Central Mediterranean Search and Rescue Zone; International Waters off Libya; 19/12/2018 (Wikpedia)

Dalla situazione esasperante di empasse in mare fino all’entrata a forza nel porto di Lampedusa, all’arresto di Rackete e alla sentenza in suo favore dalla GIP di Agrigento, la preoccupazione costante della Capitana è la sorte dei profughi che ha salvato dal mare.

Già mentre percorrevo la passerella per scendere dalla nave, con la gente che da una parte urlava con rabbia e dall’altra applaudiva, e mentre il finanziere mi spingeva sul sedile posteriore dell’auto, il mio unico pensiero era: “Merda, adesso non saprò più cosa succede a bordo”.

“Il mondo che vogliamo”, p. 70.

E descrive con una certa insofferenza l’assalto dei giornalisti in ogni momento in cui viene a contatto con loro: perché appunto distolgono il focus dal reale problema, il calpestare sistematicamente dei diritti umani dei migranti e la totale assenza di soluzioni da parte della politica.

Il fatto che nel 2019 in Europa si arresti qualcuno che ha salvato vite umane è inquietante. La comunità internazionale è messa proprio male se la retorica di destra trova sempre più spazio anche nelle leggi e nelle azioni.

“Il mondo che vogliamo”, p. 71.
manifestazioni per il clima
Photo by Mika Baumeister on Unsplash

I veri protagonisti di questa storia sono i profughi salvati dalla Sea Watch 3 e per estensione la categoria che essi rappresentano, ma anche qui Rackete vuole porre un filtro per tutelarli nella loro dignità di esseri umani:

Ho pensato a lungo a quale fosse il modo migliore per dare la parole ai profughi in questo libro. Alla fine ho deciso che offrire solo istantanee di persone che hanno invece intere esistenze e storie individuali non avrebbe reso loro giustizia. […] Auspico che si facciano domande direttamente agli uomini e alle donne che sono stati coinvolti in questa vicenda. […] Quando avranno finalmente alle spalle la condizione di incertezza e la montagna di carte necessarie per la richiesta di asilo in un paese europeo, forse loro stessi vorranno raccontare come hanno vissuto la loro fuga, cosa li ha spinti a farlo e com’è proseguita la loro vita.

“Il mondo che vogliamo”, p. 129.

E’ la domanda – cosa si vive in una traversata del genere – che Fabio Fazio ha fatto a Muhamad Diaoune, calciatore senegalese della Sant’Ambroeus F. C. Milano, ospite assieme a Carola Rackete e Giorgia Linardi portavoce di Sea Watch Italia, alla quale lui risponde con estrema dignità e riserbo per le atrocità che persone come lui hanno dovuto passare.

L’odio in rete

Di Carola Rackete è stato detto di tutto, dal reiterato “sbruffoncella” di Matteo Salvini sui social, ad accuse di essere una donna bianca ricca col “pallino” del salvataggio dei migranti, possibilmente collusa con i trafficanti stessi e dunque con presunti interessi “loschi”. Sono state fatte tantissime illazioni.

Il punto è che la figura stessa di Carola Rackete è dirompente e scardina tanti stereotipi, così tanti da far detonare il sistema cognitivo dell’italiano medio. Di questo hanno già parlato Giulia Blasi sul suo blog e anche Jennifer Guerra su The Vision.

La stessa casa editrice Garzanti ha ritrovato i post con cui sui propri social ha annunciato l’uscita del libro ricoperti di insulti verso Rackete e la stessa casa editrice per questa scelta di pubblicazione. Se volete farvi il sangue amaro, i post sono ancora lì, anche se il copione è riccorrente, potete già immaginare il genere di commenti d’odio.

https://www.facebook.com/garzantilibri/photos/a.280362672321/10156656224372322/

“Ecco, a prescindere dal personaggio, ci mancava giusto il libro, a dimostrazione che ciò che conta alla fine è solo la pecunia. Copertina orrenda, foto terribile (scusate ma sembra che abbia barba e baffi…). Disastro.”

Da uno dei commenti del post Facebook di Garzanti.

Nelle parole di Rackete nel libro non c’è molto spazio per l’odio online che ha subito a continua a subire, e secondo me non è per evitare del “vittimismo” (che comunque non sarebbe mai tale, visti i fatti) ma ciò mi sembra rientrare nello spirito fortemente pragmatico della donna, per la quale le priorità sono altre.

Ho fatto così tante altre cose che sembra davvero assurdo che qualcuno riduca la mia vita al solo fatto di aver svolto il ruolo di capitano sulla Sea Watch 3 per esattamente ventun giorni.
Sì, capitano. Non “capitana”: non mi piace. Capitano è il termine corretto per questo lavoro. E, sì, so benissimo di essere una donna.

“Il mondo che vogliamo”, p. 53.

In questo non mi trovo d’accordo con Rackete: sono una strenua sostenitrice del fatto che la battaglia per i diritti debba passare anche per un adeguamento della lingua. Dunque per me lei rimane La Capitana, che sia cacofonico o meno. Ma ognuno ha il suo punto di vista.

“Il mondo che vogliamo” è costruito con una voce in prima persona che mescola i fatti salienti della Sea Watch 3, a vicende della formazione della Rackete, a un corpus centrale più divulgativo e denso di studi per inquadrare il disastro climatico che stiamo mettendo in atto.

“I bambini giocano”, diceva mia madre quando gli amici le chiedevano come potesse lasciarmi salire così in alto. “Non posso limitarla più di tanto. La vita è fatta così, è piena di rischi”.

“Il mondo che vogliamo”, p. 48.

Gli sprazzi di infanzia e formazione della Rackete ci restituiscono un ritratto finora inedito della Capitana: racconta di esser stata fin da bambina appassionata di esplorazione della natura, che lei amava arrampicarsi sugli alberi sempre più in alto ed è stata contenta che sua madre – donna pragmatica anche lei – glielo abbia lasciato fare senza caricarla di ansie materne. Da qui allude al fatto che proprio perchè ha potuto sperimentare e mettersi a rischio, ha poi potuto trovare il coraggio per le missioni in cui si è imbarcata dopo.

Rackete racconta la sua fatica nel trovare la sua strada prima all’università e poi nel lavoro, finchè non prende una seconda laurea in Scienze ambientali (dopo Scienze nautiche, mentre suo padre la avrebbe voluta ingegnere come lui) e capisce quanto è importante per lei il tema dell’ambiente (nonostante, lei ammette, non sia cresciuta in una famiglia particolarmente ecologista), soprattutto dopo aver fatto pratica su diverse navi mercantili e poi di ricercatori, verso il Polo Nord. Qui Rackete si scontra con la dura realtà della costante dimunizione del “ghiaccio antico” che rende impossibile le rilevazioni scientifiche durante le spedizioni di ricerca. Per Rackete è uno shock e un primo pezzo del puzzle nel quadro d’allarme climatico che comincia a delinearsi davanti ai suoi occhi.

manifestazioni per il clima
Photo by Li-An Lim on Unsplash

Ben presto Carola Rackete si stanca di fare “l’autista per scienziati”, come lo definisce nel libro. Al contempo, la annoia il lavoro a bordo da ufficiale nautico e non poter dare concretamente una mano per cambiare le cose nel mondo. In questo contesto si inserisce la chiamata per la Sea Watch 3, ONG per la quale lei aveva mandato candidatura tempo prima senza molte speranze. Un giorno le arriva la comunicazione che cercano urgentemente un sostituto del Capitano per la Sea Watch 3 che non era disponibile, e lei accetta su due piedi: non aveva idea di come funzionasse l’imbarcazione, racconta, nè della situazione del Mediterraneo, a dirigere un gruppo di volontari in una situazione spesso caotica. “In ogni caso, il lavoro mi piaceva”, racconta Rackete, “perchè eravamo una squadra: tutti eravamo motivati, tutto volevamo aiutare, tutti volevano imparare qualcosa“. Qui Rackete sembra effettivamente trovare una delle sue dimensioni dato che il lavoro in mare si coniuga all’attivismo per i diritti umani, che è ciò che le sta a cuore a 360°.

La crisi globale

Carola Rackete è una Millennial, è dell’88 come me. Una donna che ha preso coscienza come molte di noi di star consegnando un futuro disastroso alle prossime generazioni, un futuro che lei stessa ha solamente ereditato dai genitori, che invece hanno goduto di un diverso benessere economico. Proprio quel boom economico che sta portando il mondo al collasso, con la sua spinta a una costante crescita che sembra non possa permettersi di rallentare mai, come ci raccontano anche Maura Gancitano e Andrea Colamedici nel loro libro “La società della performance” (Edizioni Tlon).

L’1% dei ricchi possiede il 40% della ricchezza mondiale, la metà più povera del mondo ne possiede solo l’1%.
[…] Il sistema della crescita costante, […] ci manipola continuamente, generando diseguaglianza. E in molti casi genera anche malattie mentali, perchè le nostre performance vengono sempre spinte a un limite che dobbiamo comunque cercare continuamente di superare. […] Quasi tutti, al giorno d’oggi, conoscono qualcuno che è affetto da esaurimento, disturbi alimentari o depressione: sono le malattie tipiche del nostro tempo, e tutte vengono dalle cieca fede nella prestazione.

“Il mondo che vogliamo”, p. 116.

Nelle parti divulgative del libro Rackete delinea i fattori che hanno portato alla creazione del sistema in cui viviamo, che sta andando verso un esaurimento delle risorse naturali, lo sconvolgimento dell’ecosistema mondiale, la costrizione delle persone del Sud del mondo a migrazioni forzate per scampare a morte, fame e malattie (dovute non solo alle guerre ma anche alla devastazione dei loro territori ad esempio). “I rifugiati climatici non esistono ufficialmente”, spiega Rackete, sebbene nei documenti delle Nazioni Unite se ne parli ed è di fatto di questa condizione che si tratta per chi è costretto ad abbandonare la sua casa per scampare a disastri ambientali nella propria terra che sono stati provocati da altri (ovvero i Paesi industrializzati).

manifestazioni per il clima
Photo by Markus Spiske on Unsplash

In questo quadro ci rendiamo conto di come tutto sia pericolosamente interconnesso, di come lo scioglimento dei ghiacciai faccia parte dello stesso problema che genera le migrazioni. Il problema è un disequilibrio di potere che genera un disequilibrio di benessere al contempo uno sfruttamento folle delle risorse naturali che ci avvicina sempre più verso l’aumento del riscaldamento globale, le cui conseguenze saranno fatali per la nostra sopravvivenza.

Se per noi le persone bisognose sono “gli altri” e distogliamo lo sguardo invece di aiutare, la nostra civiltà perde le sue fondamenta. La libertà di espressione e il diritto alla vita sono diritti umani. Non possiamo guardare dall’altra parte solo perchè a essere colpita è una categoria alla quale non sentiamo di appartenere. Questo indebolisce i diritti umani che appartengono a noi tutti – i più deboli sono solo i primi a essere colpiti.

“Il mondo che vogliamo”, p. 67.

Tra l’altro, questo discorso sul privilegio si può applicare perfettamente anche al sistema patriarcale e la lotta femminista a esso: c’è una categoria privilegiata (uomini eterosessuali cisgender) che non si mette nei panni di categorie discriminate come donne, persone trans e omosessuali, solo perchè appunto loro appartengono al lato più fortunato della società. Ma un mondo in cui si cominciano a tagliar via delle libertà, finisce per trascinare nella catastrofe tutto il sistema (vedasi la mascolinità tossica che ingabbia gli stessi uomini). Basti pensare al mondo di Gilead delineato da Margaret Atwood in “The Handmaid’s Tale“: chi è davvero libero e felice in un mondo del genere? Nessuno, semplicemente le Ancelle sono state le meno fortunate nella gerarchia di potere.

“Non abbiamo a che fare con una crisi dei rifugiati”, scrive Rackete, “ma con una crisi della giustizia“. Più che limitare o ostacolare la migrazione, “dobbiamo definire la migrazione in un modo nuovo, considerarla cioè come una componente della vita umana, un nuovo impulso della società, un diritto umano e un dato di fatto in un mondo che sta cambiando rapidamente”.

Una “democrazia vivente”

[…] è necessario prepararsi all’ipotesi più verosimile: che non ce la faremo. E ciò significa che dobbiamo preparare i nostri sistemi sociali a questo cambiamento e puntare a una maggiore democratizzazione, per evitare che fascisti o militari prendano il timone.
Il collasso sociale è inevitabile, una catastrofe è probabile e l’estinzione dell’umanità è possibile.

“Il mondo che vogliamo”, p. 94.

La soluzione, spiega Rackete, non è nè “la crescita verde” (ad esempio, l’utilizzo di macchine elettriche metterebbe comunque in atto una catena produttiva e lo sfruttamento di risorse naturali, il litio in questo caso) nè pensare di andare a vivere sulla Luna.

Non possiamo più parlare di “cambiamento climatico”, ma dobbiamo usare parole più appropriate: “catastrofe climatica”.

“Il mondo che vogliamo”, p. 101.

Uno dei grandi problemi è che manca proprio la percezione del problema e lo dimostrano sia il linguaggio sia il fatto che i media attenzionano il problema solo quando sale alla ribalta per questioni traverse. Ad esempio, Rackete cita la proposta dell’avvocatessa Polly Higgins di introdurre il “reato di ecocidio“, perchè in questo modo si potrebbero citare in giudizio le multinazionali che inquinano e distruggono l’ambiente, o riconoscere dei “diritti personali” ai fiumi (è stato fatto per il Gange) e per gli animali, in modo da sviluppare una strategia per tutelarli.

Sea-Watch Captain Carola Rackete (Wikipedia)

“Ci sono solo due strade”, dice Rackete, “o distruggiamo l’equilibrio degli ecosistemi della Terra – e questa semplicemente non è una soluzione! – oppure inneschiamo una trasformazione globale“. Dovremmo costruire una “democrazia vivente“, prosegue. “Il voto da solo non basta. […] In una buona democrazia, il potere viene dal popolo ma a questo scopo il popolo deve partecipare. La democrazia deve essere vissuta, perché funzioni”.

“Se le elezioni servissero davvero a qualcosa, sarebbero bandite” – Kurt Tucholsky

“Il mondo che vogliamo”, p. 122.

In chiusura, Carola Rackete parla di “disobbedienza civile“: è una parola che anche Maura Gancitano ha usato in relazione alla figura della Capitana, proprio per spiegare di cosa si tratta e le sue azioni nella vicenda Sea Watch 3. Credo che l’odio generato dalla figura di Rackete derivi sia dal tema migranti, che dal fatto che lei sia una donna, che infine dal fatto che in Italia non abbiamo alcuna familiarità con azioni di disobbedienza civile appunto, anche per questo le azioni di Rackete sono sembrate ai più assurdamente prepotenti (forzare l’ingresso al porto, urtare la barca della Guardia di Finanza e altri aspetti su cui si è speculato tantissimo e in maniera totalmente fuorviante).

Non possiamo aspettare fino a quando non ci faranno entrare in un porto, e intanto trattare le persone come pare e piace a loro. Al contrario, dobbiamo spezzare l’ordine stabilito e dare vita all’opportunità di un mondo più giusto.
Dobbiamo unire le forze.
E dobbiamo essere molti.

“Il mondo che vogliamo”, p. 125.

In chiusura, Carola Rackete cita Kumi Naidoo, segretario generale di Amnesty International: “Non dobbiamo solo pensare al di fuori degli schemi. Dobbiamo prendere gli schemi e gettarli molto, molto lontano“.

E Carola Rackete questi schemi ha già cominiciato a gettarli al largo, generando una grande onda.

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