Probabilmente l’avrete vista anche voi nei vostri feed. Provate a cercare l’hashtag su Instagram e vi renderete conto della portata di quanto sta accadendo e della forza di questa immagine

Visualizza questo post su Instagram

I can’t believe that in a rape trial a lawyer can really be allowed to state that wearing a lacy thong means to be open to meeting someone and therefore to having consensual sex. It’s outrageous. But this happened in Ireland only a few days ago and there was a protest in Dublin with women marching under the #thisisnotconsent claim. This is my small illustrated tribute to this cause. A thong is not consent. A cute dress is not consent. A no is a no. No matter the make up, the dress, the underwear. I feel so angry and ashamed of the world I’m living in. . . . #thisnotconsent #thong #weshouldallbefeminists #feminism #womenempowerment #illustration #maricazottino #womenrights #ibelieveher @ibelieveherireland

Un post condiviso da marica zottino illustration (@maricazottinoillustration) in data:

Non tutti però sanno (dato che l’attribuzione sui social si perde facilmente) che l’autrice è italiana, si chiama Marica Zottino e non si aspettava minimamente una notorietà del genere. Così le ho chiesto di fare due chiacchiere e lei si è gentilmente prestata.

Ma prima facciamo un passo indietro.

Cosa è #thisisnotconsent?

Con questo hashtag si sono uniti i cori virtuali di protesta intorno al caso di stupro che ha sconvolto l’Irlanda (Cork) ma non solo. Anche se più che altro si dovrebbe parlare del processo per stupro, dato che sono state le argomentazioni emerse durante il processo a destare giustamente scalpore.

I fatti: il caso di stupro in Irlanda

Intorno al 15 novembre il web si riempie di questi titoli:

Irlanda, tanga usato per discolpare un uomo dall’accusa di stupro“, “Indossava il tanga, non è stupro: sentenza choc in Irlanda“, “Irlanda, la protesta del tanga dopo l’assoluzione per lo stupro” e così via.

L’accusato è un ragazzo di 27 anni e la vittima è una ragazza di 17 anni. Il processo si risolve con l’assoluzione di lui. Il punto però non è la sentenza (del 6 novembre), ma un passaggio in particolare ossia questo intervento dell’avvocato difensore (una donna tra l’altro, la giuria popolare inoltre era composta da 8 uomini e solo 4 donne, vabè):


“Does the evidence out-rule the possibility that she was attracted to the defendant and was open to meeting someone and being with someone? You have to look at the way she was dressed. She was wearing a thong with a lace front.”

L’avvocato della difesa Elizabeth O’Connell

Come si legge nell’Irish Examiner, l’avvocato ha proseguito suggerendo che il fatto che la vittima indossasse un tanga potesse provare che la ragazza era aperta alla possibilità di andare a letto con qualcuno quella sera. Infine ha concluso: 

You decide if there was sexual intercourse between them. You decide if there was consent.

L’avvocato della difesa Elizabeth O’Connell

Ora, se a questo punto del mio racconto dell’antefatto qualcuno ha ancora il coraggio di commentare “sì, ma alla fine lo hanno assolto, quindi perchè vi state ribellando?“, lo prego di lasciare questo blog, grazie. Mi sono stancata di dover indicare la Luna a chi rimane a guardare il dito come un allocco. Tra l’altro sono commenti che ho realmente letto, purtroppo.

Questo semplicemente perché qui il focus, ripeto, non è tanto la sentenza ma il fatto che un aspetto come la scelta di una tipologia di biancheria intima da parte di una donna sia stata posta come argomentazione valida ai fini di determinare il suo consenso a un rapporto sessuale. 

Il fatto che sia potuto accadere che un avvocato difensore abbia detto una cosa del genere è gravissimo ed estremamente rilevante dal punto di vista sociale e politico.
Quando succede questa cosa qui, cioè che si dà parte o la totalità della colpa alla vittima, si chiama victim blaming e ci dà la misura di dove ci posizioniamo oggi nella scala di apertura mentale, civiltà e rispetto per la donna (ma direi per l’essere umano in generale): ossia rasentiamo il livello della cacca che pestiamo sul marciapiede.

I miti dello stupro si basano sul falso assunto che se prenderai determinate precauzioni, non sarai aggredita.

Rita Harold di ROSA, gruppo socialista femminista.

A proposito di victim blaming e del caso di Cork ha parlato Maura Gancitano del progetto Tlon (che vi invito a seguire).

In ambito italiano segnalo anche l’articolo su cosa è il consenso pubblicato da Le Sex En Rose, di cui condivido in particolare questo passaggio:


Credo che sia fondamentale insegnare il valore del sì e la libertà di dire sì, uguale per tutti i generi.
Il sì dev’essere chiaro e limpido come il no, non deve rimanere un sottinteso.
Il sì non dev’essere una conquista dell’uomo ma una libera scelta della donna che decide arbitrariamente di dire sì a quante e quali persone voglia semplicemente perché è quello che vuole. […]
Ecco perché penso che dobbiamo aggiustare il modo in cui comunichiamo cos’è il consenso.
Se il consenso diventa sinonimo di “no”, finisce per essere percepito esclusivamente come una proibizione, e tutti sappiamo il fascino che esercita il proibito e il vietato.
Il consenso non dev’essere percepito come una proibizione ma come un diritto, un potere e una libertà. Il consenso è la libertà stessa di fare quello che si sente di voler fare (ovviamente sempre nel rispetto delle altre persone e della libertà altrui).

Le Sex En Rose
Visualizza questo post su Instagram

?? #ThisIsNotConsent Possiamo indossare un perizoma perché ci piace, perché ci fa sentire belle e sexy, per piacere a noi stesse o per piacere a un’altra persona, per sedurre. Nessuno di questi casi rappresenta il #consenso a un’attività sessuale. Il consenso lo può esprimere solo una persona, non un indumento. Perché gli stupratori non stuprano vestiti, ma persone. L’unico modo per estirpare la cultura dello stupro è creare e diffondere una cultura del consenso solida. Credo che non possiamo limitarci a insegnare il valore del No: dobbiamo imparare a dire Sì, con forza e determinazione, a quello che sentiamo di voler fare. Dobbiamo lottare per crescere future donne consapevoli delle proprie scelte che si sentano libere di dire sì e no in base alla propria volontà e non per assecondare quella di qualcun altro, e futuri uomini che rispettino fino in fondo i sì e i no ricevuti senza provare a modificarli. E dobbiamo smettere di giudicare le persone di qualsiasi genere, identità e orientamento dal numero di sì e di persone a cui li dicono. . ?? We can wear a thong for whatever reason we like: not even one can constitute #consent. Only people can express consent, not clothes. Because rapists rape people, not clothes. If we want to #endrapeculture we have to create a culture of consent. Teaching #nomeansno is not enough: we have to learn to say Yes to what we want to do. We have to grow future women conscious of their choices and who feel free to say Yes or Not according to their will and needs and not to please someone else’s, and future men who fully respect the Yes and No without trying to change them. And we must stop judging people of every gender, identity, orientation by the number of the Yes’s and people whom they say them to. . Pic @imtheph . . #victimblaming #yesmeansyes #socialchange #stoprape #patriarchy #metoomovement #believesurvivors #ibelieveher #believewomen #slutshaming #notyours #intersectionalfeminist #feministasfuck #consentissexy #mybodymychoice #fuckthepatriarchy #feminista #mybodymyrules #womenempowerwomen #genderequality #equalrights #womenpower #allaricercadelpiacere #sexblogger #insearchofpleasure

Un post condiviso da Le Sex en Rose (@le_sex_en_rose) in data:

Il movimento #ThisIsNotConsent

L’argomentazione della difesa non poteva passare inosservata e soprattutto non poteva trovare le donne zitte e passive. Così è partito il movimento di protesta sotto il grido “This Is Not Consent“, che si è irradiato dall’Irlanda, dove migliaia di donne (e uomini!) sono scese in piazza.

La Community irlandese “I Believe Her” ha rilanciato la call a raccogliere i propri messaggi di supporto con l’hashtag #ThisIsNotConsent. E migliaia di tanga sono apparsi sui social.

La protesta è arrivata fino al Parlamento irlandese, dove la deputata socialista Ruth Coppinger in un suo intervento ha sollevato l’importanza di questo caso e ha osato mostrare un tanga ai signori colleghi.


It might seem embarrassing to show a pair of thongs here … how do you think a rape victim or a woman feels at the incongruous setting of her underwear being shown in a court?

Ruth Coppinger

L’illustrazione di Marica Zottino diventata virale

18.400: sono i like su Instagram che ha in questo momento l’illustrazione di Marica Zottino diventata nel giro di poco così virale da essere presa come una sorta di manifesto del movimento di protesta #thisisnotconsent. Io stessa l’ho scoperta su Instagram tramite l’hashtag.

Visualizza questo post su Instagram

Questa illustrazione di @maricazottinoillustration sul caso irlandese del processo di stupro (assolto) dove è stato sottolineato come significativo il dettaglio che la vittima indossasse un tanga, un dettaglio che per l’avvocato suggerirebbe un “consenso”, sta facendo il giro di Instagram. L’illustrazione è diventata subito un manifesto della protesta. Ed è bellissimo! • Questa la domanda della difesa: “Does the evidence out-rule the possibility that she was attracted to the defendant and was open to meeting someone and being with someone? You have to look at the way she was dressed. She was wearing a thong with a lace front.” • #thisisnotconsent #thong #weshouldallbefeminists #feminism #womenempowerment #illustration #maricazottino #womenrights #ibelieveher @ibelieveherireland #illustrations #noisno #ibelieveher #metoo #tanga #girltalks #femminismo #femminista #femministe

Un post condiviso da Match and the City • by Marvi (@matchandthecity) in data:

Ecco di seguito l’intervista a Marica Zottino.

Raccontami di te, chi sei, il tuo lavoro, i tuoi desideri. Cosa vuoi comunicare con le tue opere?

Ciao! Sono Marica, ho 37 anni, vivo a Treviso con la mia adorata cagnolotta Dana e nella vita faccio l’illustratrice. In realtà già questo è un desiderio realizzato, disegnare è quel che amavo fare fin da bambina ma poi ho intrapreso un percorso diverso, un po’ più lungo e tortuoso, passando da una laurea in disegno industriale e qualche lavoro come progettista o graphic designer per aziende o studi stilistici. A 30 anni, presa dall’entusiasmo della cifra tonda, mi sono detta che era arrivato il momento di mollare tutto e provare a dedicarmi al disegno… ed eccomi qui! Da anni collaboro con case editrici francesi per cui ho pubblicato coloring books, agende, vari progetti di stationery etc. Ma mi occupo anche di pubblicità, personalizzazione del prodotto, packaging e textile design. Quando mi dedico a lavori personali mi rifaccio ad un immaginario che mi è caro, popolato di animali, pattern, riferimenti allo stile tattoo. Uno dei miei soggetti preferiti è il cuore, che ho disegnato in moltissime versioni. E nel cassetto ho un progetto di illustrazioni/ritratti su commissione di animali. 

Com’è nata l’illustrazione che hai fatto per il caso irlandese #thisisnotconsent?

E’ nata di getto. Avevo letto le notizie su quanto era successo a Cork mentre stavo lavorando nel pomeriggio, ma mi era rimasta una rabbia latente e ho voluto approfondire la questione la sera, arrivata a casa, un po’ sperando di aver travisato qualcosa. Avevo letto un titolo che recitava più o meno “indossava il tanga, non è stupro” e mi pareva qualcosa di surreale. Documentandomi di più sulla vicenda ho capito che se da una parte il tanga non era stato l’elemento chiave per cui l’imputato è stato ritenuto non colpevole, dall’altra è stato davvero utilizzato nell’arringa della difesa da un avvocato donna (!) come indice del fatto che la ragazza fosse partita con buone predisposizioni ad un rapporto consenziente. Mi è salita la furia. Non è possibile che nel 2018 si consenta ad un avvocato di utilizzare questo tipo di argomentazioni. Di assimilare abbigliamento e intenzioni. Di escludere il libero arbitrio, il diritto a vestirsi in un determinato modo indipendentemente dal desiderio di avere o meno un rapporto, o anche semplicemente di indossare dell’intimo carino per un primo appuntamento salvo poi rendersi conto che la persona con cui si è uscite non ci interessa e tornare a casa sane e salve. Diffondere questo tipo di pensiero, creare dei precedenti per cui venga ritenuto argomentazione valida in sede processuale, è pericolosissimo. Non vorrei mai trovarmi nella condizione di dovermi difendere per l’aver indossato un perizoma. Magari per andare al lavoro, perché lo trovo comodo. O che qualcuno si senta in un certo senso autorizzato a molestare se mi sono messa una gonna corta per uscire a cena col mio ragazzo e sto percorrendo la strada per raggiungerlo. Ho cercato altri articoli, ho letto delle proteste che c’erano state a Dublino e a Limerick, di quella che stava montando in rete con l’hashtag #thisisnotconsent, con migliaia di donne e ragazze che stavano postando le foto del loro intimo. Così ho deciso di unirmi a quelle voci, nel modo che mi è più naturale: disegnando.


Non vorrei mai trovarmi nella condizione di dovermi difendere per l’aver indossato un perizoma.

Marica Zottino

Nel momento in cui ti scrivo [20 novembre], la tua illustrazione sul tuo profilo Instagram ha superato i 7.000 like, senza contare anche le centinaia di condivisioni. Secondo te cosa ha reso questa illustrazione così virale? Quali ingredienti ha mischiato?

Ora, mentre ti sto rispondendo, i like sono oltre 18.000, delle condivisioni ho perso traccia ma è rimbalzata ovunque, da un video su AJ+ ai profili social di Cosmopolitan France, Glamour UK, Glamour France, su la Repubblica, Radio Capital e moltissimi siti e portali che si occupano di questioni al femminile. Il fatto che abbia raggiunto così tante persone continua a sorprendermi, in qualche modo è diventata proprio la bandiera che ho disegnato, il simbolo di questa ondata di sdegno collettiva.

Volevo che fosse un chiaro segno di protesta, un perizoma issato a bandiera del nostro diritto di donne di vestirci come ci pare.

Marica Zottino

Un po’ mi viene da sorridere perché io, di solito, il dono della sintesi non ce l’ho proprio. Sono molto decorativa, tendo ad aggiungere più che a sottrarre ma in questo caso la rabbia e in un certo senso anche l’urgenza di dire la mia hanno fatto nascere un’immagine diretta. Volevo che fosse un chiaro segno di protesta, un perizoma issato a bandiera del nostro diritto di donne di vestirci come ci pare.

Ti aspettavi questo successo?

Assolutamente no! Se guardi i miei profili social e confronti questa ad altre immagini vedrai subito che  ha raggiunto risultati di gran lunga superiori a quanto pubblicato in precedenza e in seguito. L’ho caricata la sera prima di andare a dormire, senza aggiungere tag superflui o hashtag “catchy” per agganciare profili di repost. Il messaggio era e voleva rimanere pulito, non era una ricerca di pubblicità ma una voce che si univa alle tante. Speravo che tra i miei contatti qualcuno si incuriosisse ad andasse a documentarsi sulla vicenda, che magari la condividesse e ne diffondesse il messaggio. Ma mai mi sarei aspettata una risposta così grande. 

C’è stato qualche messaggio che hai letto o ricevuto dopo questo caso e la tua illustrazione che ti ha colpita particolarmente in positivo?

Nei giorni seguenti alla pubblicazione dell’immagine mi hanno scritto tantissime donne da tutte le parti del mondo, ringraziandomi per aver rappresentato i loro pensieri, per aver dato loro un’immagine in cui riconoscersi. Alcune mi hanno anche raccontato le loro storie e questo mi ha dato una nuova consapevolezza, è stato come  toccare con mano la potenza che può avere un’immagine
C’è stato chi mi ha chiesto di poter utilizzare l’immagine per dei cartelloni da portare in proteste/manifestazioni. Altre mi hanno segnalato i profili che stavano condividendo l’immagine senza attribuirla a me e questo, davvero, mi ha commossa. Mi ha fatto capire quanto può essere bella e potente la rete se si coalizza e dimostra empatia.

Alcune mi hanno anche raccontato le loro storie e questo mi ha dato una nuova consapevolezza, è stato come  toccare con mano la potenza che può avere un’immagine

Marica Zottino

Quando un’immagine diventa virale ad un certo punto se ne perde inevitabilmente il controllo. E questo può prendere derive poco piacevoli. Se l’autore non è noto, se l’immagine viene condivisa rimuovendo la firma, il rischio che qualcuno possa farne uso per scopi commerciali non autorizzati  cavalcando il trend del momento si fa concreto. Non ho mai avuto intenzione di lucrare su questa immagine e mi auguro che nessuno lo stia facendo o lo abbia fatto, ma è bastato scrivere nelle Stories perché ritenevo importante che l’attribuzione fosse chiara e ho ricevuto centinaia di messaggi con segnalazioni, tag nei  commenti di persone che andavano a chiedere o correggere l’attribuzione nei vari post. Insomma, una solidarietà che non mi aspettavo e che mi ha scaldato il cuore.

E in negativo? Ad esempio, dopo qualche giorno hai dovuto pubblicare un disclaimer in cui chiedi giustamente di non decontestualizzare la tua illustrazione e in cui metti dei puntini sulle “i” su questa protesta, con cui mi trovo peraltro d’accordo (es. non è una guerra agli uomini).

Ecco, questa è la deriva brutta della viralità. Molte persone hanno iniziato a condividere la mia immagine snaturandola del suo messaggio originario, aggiungendoci (a volte proprio sopra, non solo nei post/commenti) considerazioni, dettagli, invettive che nulla avevano a che fare con ciò che avevo scritto io. Io non ce l’ho assolutamente con gli uomini, anzi contesto una cultura, quella del “se l’è andata a cercare” che spesso purtroppo parte proprio dalle donne (donna era infatti l’avvocato dei fatti in questione). Dovremmo uscire dalla stereotipo di “maschi contro femmine” e cercare di capire che se l’obiettivo è quello del rispetto, questa battaglia va combattuta fianco a fianco.

Dovremmo uscire dalla stereotipo di “maschi contro femmine”.

Marica Zottino

In questi giorni tra i commenti, i messaggi, le mail e le provocazioni ho toccato con mano il pregiudizio culturale in cui siamo ancora immersi e la  ritrosia a documentarsi sui fatti prima di aprire bocca. Mi spiace, mi spiace vedere che la capacità di discernimento è così poco diffusa, che spesso sembra più una corsa alla condivisione/demolizione della causa del momento più che una consapevole presa di posizione sui fatti. Ho letto commenti orribili, donne che auspicavano all’avvocatessa di morire per una violenza sessuale, uomini che davano delle zoccole indiscriminatamente a tutte le donne che avevano condiviso l’immagine, e così via. Negli ultimi giorni poi, probabilmente proprio per le cause di cui sopra, si è diffusa una fake news che riguarderebbe il suicidio della ragazza di Cork. Per fortuna nessun suicidio, si tratta di un riferimento a un fatto di cronaca analogo successo nel 2002 in Scozia. Questo non ha impedito però che la mia immagine venisse condivisa associandola a questo ipotetico suicidio, con dei “RIP” anche photoshoppati sopra. E ho dovuto aggiungere il terzo disclaimer. Eppure basterebbe poco per capire come stanno i fatti. Un minuto o poco più. Il tempo che ci ho messo io stessa ad interrogare  google dopo le prime notizie di ipotetico suicidio. E ancora sorrido perché molti mi hanno accusato, anche nei commenti, di non essere informata sui fatti e di aver condiviso un’immagine collegata ad una notizia travisata. C’è chi mi ha insegnato come funziona una causa, cosa significhi fare l’avvocato, come funzioni il sistema legale irlandese, che prova non significa sentenza. Peccato nessuno di questi avesse investito 30 secondi della propria vita a leggere il post originale.

Per questo punto finale, degli spiegoni fatti in maniera saccente (nella maggior parte dei casi da uomini a donne), anche questo ha un nome e si chiama “mansplaining” o “minchiarimento ” come dal Manuale per ragazze rivoluzionarie di Giulia Blasi (che se non l’avete fatto, leggetelo!). – NdMarvi

Dove ti possiamo seguire? 🙂

Il profilo che aggiorno più spesso è Instagram (@maricazottinoillustration). Ho anche una pagina su Facebook, ma la seguo con un po’ meno costanza, un profilo Twitter (@maricazottino) e un sito web perennemente da aggiornare (www.maricazottino.com).